Annotazioni di Ecologia umana dell’ambiente artistico – canoro napoletano.

Vedi Napoli è poi muori; Napoli canta; Napoli è armonia.

di Giuseppe Pace

Le 3 foto riportano un vicolo di Napoli, dove il sole fa solo capolino, le funzioni di un buon libro e me a Piedimonte Matese vicino ad una delle storiche fontane di piazza Carmine.

Vedi Napoli è poi muori; Napoli canta; Napoli è armonia. Sono alcuni dei luoghi comuni sulla più bella delle città (tacendo quelli negativi per pietà quasi filiale). Napoli da Piedimonte Matese (CE) cittadina epicentrale del Sannio, dista solo 70 km. Il Sannio da Napoli è vicino e lontano nel contempo. Come regione storica Sannio, da rifare secondo me ed altri (non alla politicante maniera dello scorso anno che parlava di Molisannio e non di Sannio), è più estesa e popolata dell’attuale Molise. Più che all’ombra di Roma caput mundi, il Sannio, ma un po’ tutto il Mezzogiorno, è all’ombra di Napoli docet, anche per esserne stata la capitale per molto tempo.

A Bojano i figli o nipoti delle arti liberali (traendo spunto dalla terminologia usata nel mio ultimo saggio “Canale di Pace”, toponimo letinese, con sottotitolo “Evoluzione del cittadino e primato della cultura sulla natura”, Amazon II edizione 2023) vanno, o andavano, a studiare all’Università di Roma se erano i più abbienti e a Napoli quelli meno abbienti. A Piedimonte Matese quasi tutti andavano solo alla Federico II di Napoli, ma oggi è variata l’offerta formativa postdiploma e si va a pure all’estero: Albania e Bulgaria  in primis soprattutto quando non si superano i test d’ammissione alle nostrane università. Sarebbe ora di abolire tali testi e porre lo sbarramento al II anno, per i meritevoli.

Ciò premesso per tingere di note autobiografiche come nel mio libro citato e per ciò che segue, passo a scrivere un po’ di un ambiente speciale, quello canoro partenopeo. Quando si delinea la cornice ambientale si stabilisce un confine tra ciò che sta dentro l’insieme di natura e cultura da ciò che sta fuori o quasi il nulla, ammesso, per assurdo, che esista.

Nell’ambiente culturale un posto speciale è quello dell’arte canora come le canzoni. Queste ultime sono prima pensate da una persona colta, poi adattate con la messa in versi poetici ed infine si trova chi scrive e prova la musica di sottofondo delle poesie da cantare da chi è intonato, gli alri le cantano contenti anche se stonati. Non ne ho conosciuto molti, in modo diretto, di cantautori napoletani, ma uno in modo meno superficiale l’ho conosciuto eccome. Era ed è puteolano di nascita e formazione.

D’estate, durante l’Agosto Bojanese, ci rincontravamo in Molise centrale, a Bojano. Lo chiamo amichevolmente “scugnizzo”, ma si chiama Salvatore Brunetti, putelano di mascita, un vero artista poliedrico ed autodidatta anche per i romanzi che ha avuto la fantasia di scrivere. Ha scritto pure due saggi. uno sulla grammatica napoletana e l’altro di quella puteolana. Nelle sue canzoni mi (ignorante in quell’arte anche se comincio a tarda eta a scrivere poesie come i 10 canti fluviali apprezzati più all’estero) sembra di notare un retaggio ereditato dal lungo tempo frequentato in ambito dei cantautori napoletani come il preludio poetico primaverile ed amoroso dei suoi versi canori.

Tra le sue canzoni ricordo, tra altre: filillo argento, omm e niet, dicearchia, serenata a na zitella. Viaggiando anche all’estero (per motivi di lavoro per il Maeci (Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionale) notavo che quando si canta italiano si canta prevalentemente napoletano e in Russia il napoletano e nostrano Presidente, Giovanni Leone, cantò Iam iam ncoppa a iammu ia… Colti colleghi di scuola a New York, Buenos Aires, Colonia, Cairo e Istanbul e a Deva in Romania, mi ricordavano la dolcezza di Santa Lucia luntana, che spesso sapevano suonare al pianoforte o alla chitarra. La canzone è antichissima, ma E A. Mario l’ha riproposta. Santa Lucia luntana è dedicata agli emigranti, che partivano  con le navi dal golfo partenopeo o delle sirene per terre assai lontane (quasi sempre le Americhe); le parole del brano sono appunto ispirate ai sentimenti che questi provavano allontanandosi dalla terraferma, fissando il pittoresco panorama di Santa Lucia, antico borgo vicino a Castel dell’Ovo, ultimo scorcio della loro terra che riuscivano a vedere, sempre più piccolo, all’orizzonte.

La canzone divenne subito un successo perché portava alla luce l’emigrazione fenomeno fino ad allora misconosciuto dalla cultura ufficiale. L’esecuzione è contenuta nell’album Quando facevo la cantante (2018) “La canzone dialettale e popolare”. Questa canzone è antica, mitica e rappresenta un ambiente napoletano creativo ma anche un po’ infantile con spiccato territorialismo e nostalgia dell’imprinting (scoperto da Konrad Lorenz osservando l’anatra meccanica nello stagno d’acqua che veniva seguita da veri anatroccoli privati momentaneamente della mamma naturale). Bene la cantavano, qualcuno canta ancora, sia  i napoletanissimi Mario Murolo e Massimo Ranieri (sua è la canzone cantata integralmente, gli altri l’hanno ridotta) che il romanesco Claudio Villanonché, con più tecnica canora ma con meno passione travolgente, Andrea Bocelli e Luciano Pavarotti.

Ancora più marcatamente infantile e afflitta da territorialismo biologico è la canzone “Chist è o paese do sole” cantata magnificamente da Mario Abbate. Viceversa, invece, “Era di maggio” è una canzone d’amore senza pari e universale, cantata da più artisti delle altre suddette. L’hanno cantata tra gli altri Renzo Arbore, Roberto Murolo, Luciano Pavarotti, Andrea Bocelli, Claudio Villa, Mina, Luciano e Giacomo Rondinella, Gianni Nazzaro, ecc. Ne ricordo, in italiano, i versi, che sono del 1885 di Salvatore Di Giacomo e musicata da Mario Pasquale Costa: «Era di maggio e ti cadéan sul grembo a ciocche, a ciocche le ciliegie rosse. L’aria era fresca, e tutto il giardino profumava di rose a cento passi. Era di maggio; e io no, non me ne scordo, cantavamo, a due voci, una canzone. Più passa il tempo e più me ne ricordo, l’aria era fresca e la canzone dolce. E diceva: “Cuore, cuore! cuore mio lontano vai,  tu mi lasci e io conto l’ore…chissà quando tornerai?”Rispondevo: “Io tornerò quando torneràn le rose. Se questo fiore torna a maggio, a maggio pure io sarò qui. Se questo fiore torna a maggio, a maggio pure io sarò qui”. E son tornato ed ora, come una volta, cantiamo insieme la vecchia canzone; passa il tempo e il mondo cambia, ma l’amore vero no, non cambia mai. Di te, bellezza mia, m’innamorai, se ti ricordi, dinanzi alla fontana: l’acqua, là dentro, non si secca mai e ferita d’amore non si sana. Non si sana: perché, se si fosse sanata, o gioia mia, in mezzo a quest’aria profumata non starei a guardarti! E ti dico: “Cuore, cuore, cuore mio, io son tornato… torna maggio e torna l’amore: fa’ di me quello che vuoi! Torna maggio e torna l’amore: fa’ di me quello che vuoi”»

Questa canzone è stata, spontaneamente, cantata dalle donne dei vicoli napoletani presenti al funerale dello scrittore e ingegnere napoletano, Luciano De Crescenzo, nato a Napoli, il 18 agosto 1928  e morto a Roma il 18 luglio 2019. Il suo funerale napoletano fu, meritatamente, molto onorato al monastero di Santa Chiara con gli artisti suoi amici Renzo Arbore e Marisa Laurito. Del poliedrico artista napoletano, Luciano  De Crescenzo, mi piace ricordare che alla domanda per quale partito tifasse, rispondeva sempre: “di Napoli centrale”. La canzone dedicatagli all’uscita del feretro dal monastero di Santa Ciara, dalle popolane donne napoletane, sembrava un omaggio all’amore sconfinato dell’indigeno napoletano per la città partenopea, tanto ricca di mito, incanto e attualità. Dell’ambiente naturale e culturale di Napoli conservo bei ricordi durante gli anni universitari all’Università, Federico II, che è la più antica università statale con esperienza accumulata nel tempo più ancora di Bologna e Padova, più antiche di qualche anno, ma confessionali inizialmente.

Quando la Domenica, i miei conterranei e coprovinciali rientravano in famiglia io restavo a godermi Napoli anche perchè ero innamorato di una bella guagliona molisana, che studiava più di me e sempre alla centrale Federico II, che a fine anni Sessanta aveva circa 100 mila iscritti. Oggi la sua gemmazione ha dato vitalità a più università: campane, molisane, ciociare, calabresi, ecc. probabilmente dequalificate perchè meno internazionali e più provinciali. Chi fondò l’Università di Napoli non scelse a caso quella città nel XIII sec.. Egli era molto colto e poliglotta, tanto da definirlo amici e nemici, lo “stupore del mondo”. Una volta, dal Veneto, accompagnai, con altri colleghi due classi in visita d’istruzione a Napoli e costiera amalfitana. Leggemmo in corriera la guida della Riviera che illustrava il paesaggio d’incanto e gli indigeni con la canzone dei due vecchi professori di concertino che andarono a cantare in paradiso su invito di san Pietro e poi alla fine non volevano restare in paradiso perchè il loro paradiso era a Napoli.

Questa città delle sirene ha tutto il male e il bene dell’anima mundi, che oggi alcuni fisici e biologi cercano nei fotoni I primi e nella memoria dell’Homo sapiens i secondi. Nel mio saggio ambientale citato la cerco anche nella memoria ancestrale dell’acqua e nel mito del fiume Lete, che ha origine a Letino (CE). L’Acqua costituisce per oltre il 65% tutti gli organismi e di quelli giovanissimi oltre il 75% fino al 95 in alcuni poriferi e celenterati. Dunque non ci può essere vita sulla Terra senza l’acqua e, di conseguenza,  pure in tutto l’universo, che è finito, illimitato e curvilineo, parafrasando non un uomo qualunque, ma Albert Einstein.  Napoli economicamente non è messa bene ma artisticamente docet e non solo a livello regionale e nazionale, ma internazionale.

E’ raro trovare una città così internazionale pur avendo degli aspetti provinciali profondissimi a cominciare dall’abbandono scolastico ancora alto. Al Museo del Prado di Madrid, nel 2000, notai un’intera collezione seicentesca di pittori napoletani e mi fece piacere non poco come mi fece piacere quella veneta al Metropolitan Museum of Art di New York. Onore al merito, sempre e dovunque. Credo che l’artista napoletano, mediamente, ha più notorietà all’estero che in Italia per i molti luoghi comuni negativi che la sua città porta con sè, purtroppo.

Enrico Caruso, nato a Napoli e concepito a Piedimonte d’Alife, ne fu un esempio eclatante. La canzone più famosa di Napoli è O sole mio anche se non fruttò molto ai suoi due autori, Capurro e Di Capua, che morirono in povertà nella seconda decade del 1900. La casa di edizioni musicali Bideri continua a percepire le royaltydel pezzo, che – nonostante sia passato più di un secolo dalla registrazione – non è ancora divenuto di pubblico dominio. Infatti, nell’ottobre 2002, il Tribunale di Torino ha riconosciuto Alfredo Mazzucchi, deceduto nel 1972, come coautore della melodia, di conseguenza il brano rimarrà sotto copyright fino al 2042.Il giornalista e redattore del Roma a Napoli, Giovanni Capurro, nel 1898, scrisse i versi della canzone affidandone a Eduardo Di Capua, la composizione musicale. Questi si trovava a Odessa, nell’Impero russo, con suo padre, violinista in un’orchestra.

La musica sembra sia stata ispirata da una splendida alba sul Mar Nero e dal poeta latino, aggiungerei insindacabilmente, Ovidio Publio Nasone, che sul Mar nero morì in esilio, ma prima di Tristie scrisse e lasciò in eredità, anche a Eduardo di Capua, l’Arte di amare. O sole mio, venne poi presentato a Napoli alla Festa di Piedigrotta a un concorso musicale de “La tavola rotonda: Giornale, letterario della Casa Editrice Ferdinando Bideri, senza ottenere grande successo, ma in seguito si diffuse sempre più – anche fuori dall’Italia– fino a diventare un vero e proprio patrimonio della musica mondiale.Insomma Napoli docet nell’arte canora, e sembra veritiero l’eufemismo del direttore milanese che disse a due aspiranti ad un concorso di scrivere ciò che volevano si di un foglio bianco. Il milanese lo lascio in bianco e il napoletano lo riempì di tante cose: poesie, disegni, aforismi, metafore, colori, cielo, mare e monti. Forse l’antica cultura greca a Napoli si è meglio fusa con quella Sannita dell’interno e Romana capu mundi per dare un prodotto sociale unico al mondo. Se ogni paese è il mondo, Napoli è un paese unico al mondo, direi.

La filosofia del carpe diem che ha goduto sempre vita felice nel fascinoso mondo canoro napoletano tocca l’apogeo della sua espressione nel terzo atto della Festa di Piedigrotta (1853) di Luigi Ricci (Napoli, 1805-Praga, 1859) quando il personaggio Cardillo interpreta la canzone della taverna: “Magnamme, amice mieje, e po’ bevimmo ‘nzì a tanno ca ‘nc’è uoglio a lalucerna. Chissà se all’auto munno’nc’è taverna. Vedimmoncenne, de la vita, o bbene. Lo presente è ‘no sciuscio e no se vede; lo passato è passato e cchiù no vene e all’avvenire è pazzo chi ‘nce crede. Facimmo mo’ la prova De chi sa cchiù ‘nciucià E ‘na canzona nova. Volimmo mo’ cantà: Magnamme, amice mieje, e po’ bevimmo, Etc”.

Una canzone simile è riportata dalla pizzeria-ristorante di una laterale nord di via Aldo Moro di Piedimonte Matese, che riportava il loro idolo Troisi. Napoli, Neapolis in greco o nuova città, in conclusione, con il suo golfo delle greche sirene partenopeee, attrae sempre con musica e canzoni. Il suo ambiente canoro è internazionale più di qualunque città al mondo! Le sue debolezze sociali, economiche, popolane, che non sono affatto poco, sono nascoste o meglio oscurate dal grande cuore di Napoli, dicono i poeti! La canzone di E. A. Mario (quello che ha scritto pure una poesia “Matese”, non quella, più sannita o molisana, di Emilio Spensieri di Vinchiaturo (CB) ed esposta in piazza dalla Pro Lpco di Castello Matese), Dduje paravise, fu da me utilizzata per illustrare la Costiera amalfitana nel 1982 agli studenti veneziani mentre li conducevo nel Golfo di Partenope. Il Consiglio d’Istituto votò solo a stretta maggioranza il permesso di recarci a Napoli, grazie alla visione meno provinciale del preside, Silvio Resto Casagrande, che era stato in bicicletta fino in Calabria con amici da giovane. Era un letterato ed apprezzava, più di altri presidi e docenti padano-veneti, l’immensa cultura classica che sta nell’ambiente a sud del Rubicone romagnolo comprese le arti napoletane come quelle musicali e canore. Al settentrione è prevalente una cultura scientifica, tecnica e commerciale, che alimenta meglio il sistema produttivo locale, ma meno la socialità, a volte eccessiva fino all’invadenza, pur necessaria in tutti gli ambienti!

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