Barbie: dietro il glitter e il rosa, una critica al femminismo.
il film come un becero spot al femminismo più sessista e antimaschile… ritorno a una femminilità più tradizionale… un vero inno alla maternità, contro gli imperativi dell’agenda woke… nel mondo reale non c’è nessun patriarcato.
di Vincenzo Moggia
In poco più di un mese Barbie, il film prodotto da Mattel ispirato alla bambola pop più celebre della storia, ha incassato oltre un miliardo di dollari, portando alla regista Greta Gerwig il primato quale regista donna a superare questo traguardo. Successo meritato? Di certo il film ha potuto contare su un fortissimo passaparola tra tv, giornali e social media. La gran parte dei commentatori uomini si è espressa negativamente, dipingendo il film come un becero spot al femminismo più sessista e antimaschile, e comunque privo di qualsiasi merito artistico o anche solo di mero intrattenimento.
Ma questa lettura è giustificata? Cominciamo col dire che Barbie è un grande film: uno spettacolo sia per gli occhi, tra scenografie visionarie, coreografie memorabili, e una recitazione divertita ma impeccabile da parte degli interpreti (specialmente Ryan Gosling, qui superbo e svettante per inventiva e ricchezza d’espressione); sia per le orecchie, con una colonna sonora emozionante e ben armonizzata alla storia; sia per l’intelligenza, con una scrittura e narrazione stratificata che chiede di essere ascoltata e compresa con attenzione. Per scoprire un vero e proprio “cavallo di Troia” che nasconde qualcosa di tanto inaspettato quanto benvenuto: un manifesto d’intenti a favore del ritorno a una femminilità più tradizionale e, con esso, un vero inno alla maternità, di fatto andando contro gli imperativi dell’agenda woke.
Buon segno, che svela la vitalità di una parte sana della società contemporanea, se è vero che un’altra parte mira da decenni, attraverso l’ideologia gender in maniera esplicita e programmatica, ad instillare un giudizio negativo su ogni differenza, naturale e sociale, tra uomo e donna. E a proporre come ideale positivo una società in cui i due sessi siano appiattiti e confusi tra loro (fino ad assurdi come la “gravidanza maschile” e gli individui “non-binari”), e dove unico obiettivo desiderabile per una donna sia far “carriera” e rendersi autonoma dagli uomini, invadendone i tradizionali ruoli sociali (o solo alcuni, quelli più comodi…), a dispetto di un sistema patriarcale dedito a opprimerla, usando perfino sessualità e maternità come strumenti.
«Ma nel film Ken “esiste solo nel calore dello sguardo di Barbie”, e viene dipinto prima come totalmente sottomesso alle donne, poi come un oppressore patriarcale e sessista, per essere poi manipolato e riportato in uno stato di subalternità!». Così sento già protestare alcuni lettori. Il meccanismo su cui gioca l’apparente ambiguità è il doppio livello della narrazione: le vicende si snodano nell’intreccio tra due ambiti normalmente separati, il “mondo reale” e “Barbieland”.
Ma la separazione, e anzi contrapposizione, tra questi due luoghi è esplicitata nel film: i due livelli non vanno confusi tra loro, né si può trarre il messaggio del film solo da ciò che succede in uno dei due, ignorando completamente l’altro e la dinamica dei rapporti tra loro. È vero che “i Ken” sono piatti, incapaci e sottomessi alle “Barbie”, mentre “le Barbie” costruiscono, scrivono, vincono premi Nobel e vanno nello spazio; è vero che il Ken protagonista, nel tentativo di rovesciare questa situazione, “crea un patriarcato” così come lo si trova nelle fantasie macabre delle femministe. Ma di questo si tratta appunto: perché tutto ciò succede unicamente dentro Barbieland, e non riguarda minimamente il mondo reale. Si tratta di Ken e Barbie, non di uomini e donne..
Un’interpretazione fuori dal coro.
Nel mondo reale infatti le cose vanno molto diversamente. Barbie è sorpresa di vedere che nel mondo reale i cantieri non sono popolati di donne lavoratrici e di trovarci solo uomini («Cavolo, una pensa che un cantiere all’ora di pranzo sia perfetto per ricevere del potere femminile, invece questo era così… maschile!») che le fanno per giunta degli apprezzamenti ammiccanti, cui lei risponde, con forte sottotesto simbolico, di non avere la vagina. Ma soprattutto è sorpresa di non essere accolta come l’eroina che ha salvato e emancipato le donne, dando loro il potere, e anzi molte donne la odiano: per aver incarnato un ideale irraggiungibile (come le spiega la ragazzina Sasha), o piuttosto una pressione sociale irreale che finisce per diventare frustrante e invalidante, come più avanti le spiega la sua controparte nel mondo reale, Gloria, designer alla Mattel.
È proprio Gloria a innescare involontariamente l’intreccio tra i due mondi immaginando una Barbie modello “cellulite”, una modello “irrefrenabili pensieri di morte” e una modello “vergogna paralizzante”, incrinando così l’irreale narrazione che Barbieland rappresenta («Barbie non si vergogna!»). Ma anche Ken è sorpreso, all’inverso: abituato a un mondo dove le donne comandano e gli uomini sono “superflui” e subordinati, è sorpreso di vedere uomini in posizioni di potere, che esprimono liberamente la loro virilità nelle parole, nel vestiario, nella gestualità; è folgorato dalla possente immagine di due poliziotti a cavallo; addirittura, come racconta vantandosi con gli altri Ken, una donna gli chiede “che ore sono?”, facendolo sentire visto e rispettato per la prima volta.
Finisce perciò per illudersi che nel mondo reale dominino gli uomini allo stesso modo in cui in Barbieland dominano le donne: è un personaggio di Barbieland, non un uomo reale, e legge la realtà attraverso la lente di quella narrazione di cui è fatto. Ma quando va a proporsi per un ruolo dirigenziale, scopre che non basta essere un uomo per averlo: «Voglio un lavoro di alto livello, ben pagato e influente! – Deve avere almeno un master, e molti dei nostri hanno un dottorato. – Essere un uomo non basta? – Veramente adesso è quasi l’opposto…» gli risponde il dirigente, demolendo totalmente la narrazione femminista. Non può fare neanche il medico, il bagnino e neppure il lavoro di “spiaggia” (esente dal soccorrere persone in acqua) che faceva in Barbieland.
Decide perciò di tornarvi, e “creare un patriarcato”, dove i Ken dominano e vanno a cavallo (mimando il cavallo, che non c’è: raffinata citazione dei Monty Python) e le Barbie pendono dalle loro labbra, entusiaste di fare da cameriere e massaggiatrici: Kendom. Lo può fare soltanto lì: il film ci sta dicendo che nel mondo reale non c’è nessun patriarcato, nessun regno dove gli uomini dominano “in-quanto-uomini”, sciocchezza relegata al mondo delle fantasie femministe. Questo viene peraltro detto esplicitamente nel film, e nello specifico dal personaggio più oracolare: il fantasma di Ruth Handler, inventrice di Barbie, interpretato da una Rhea Perlman da brividi, per la profondità e umanità che riesce a infondere nel suo personaggio.
Ruth incarna una fonte di saggezza, quale “creatrice” di Barbie, madre, e anima trapassata. Ed è proprio lei a spiegare a Barbie che «Essere un umano può essere piuttosto spiacevole. Gli umani inventano cose come il patriarcato e Barbie, per affrontare quella parte spiacevole». Barbieland e Kendom, nel loro sessismo esplicito e sfacciato, sono talmente caricaturali e ridicolizzati che è impossibile prenderli sul serio. Eppure molti frettolosi recensori del film li hanno presi quali suo messaggio assoluto; e d’altra parte la narrazione propagandistica che il film mette alla berlina ha tanti seguaci anche nella realtà.
Il film prosegue con le Barbie che riconquistano il potere, manipolando i Ken e facendo leva sul loro punto debole: l’attrazione sessuale. Il piano prevede di sguinzagliare in Kendom delle Barbie che, fingendo di essere ancora sotto l’influenza del “lavaggio del cervello” patriarcale dei Ken, dovranno sfruttare la fascinazione insita nel sesso maschile verso la donna fragile che necessita di istruzione, protezione e rassicurazione, per sedurli e poi metterli l’uno contro l’altro, facendoli ingelosire. Siamo in Barbieland, perciò il piano funziona. Questo è il passaggio più spettacolare del film, perché alla guerra tra i Ken, ricca di invenzioni divertenti e citazioni dalla cinematografia di genere, si intreccia una sontuosa coreografia, un tripudio di pura energia e bellezza virile sfoggiata sulle note di un pezzo che richiama il pop anni ’70-’80 (vengono subito in mente Grease e Rocky III). Ken dà voce a tutta la frustrazione accumulata da eterno “friendzonato”, eterno amico-spasimante che protende le labbra nell’inutile attesa di un bacio di Barbie, la quale però in eterno lo respinge perché «Questa è la casa dei sogni di Barbie, non la casa dei sogni di Ken. Ed è la serata tra donne. – Ogni sera è la sera tra donne. – Ogni sera, per sempre!».
E dallo sfogo di Ken emerge il disagio dell’uomo moderno pressato dallo Zeitgeist ad assomigliare il più possibile a uno stereotipo femminile, e al costante conflitto con la propria mascolinità, in quanto intrinsecamente “tossica”: con la promessa che tale repressione sarà ben valutata dalla società («Sono un uomo liberato, so che piangere non è da deboli») e desiderabile per le donne, laddove invece il contesto sociale ci suggerisce spesso altrimenti. «Come siete forti!», dice un Ken ferito e adorante, alla sua prima comparsa nel film quando si scontra contro un’onda e le Barbie lo tirano su e lo soccorrono. Fragilità espressa nel canto di Ken che, avendo visto il mondo reale, ha ormai maturato una consapevolezza della propria virilità e vuole liberarsi dalla retorica misandrica che lo imprigiona in un’immagine del maschile vulnerabile, inibita, e in costante necessità di approvazione femminile: «Per tutta la vita ho fatto il bravo ragazzo, ma dormirò da solo stanotte: perché sono soltanto Ken, eppure in qualsiasi altro posto sarei un ‘dieci’! È il mio destino, vivere questa vita di bionda fragilità? Dove io vedo amore, lei vede solo un amico. Cosa devo fare, perché lei finalmente veda l’uomo dietro l’abbronzatura, e si batta per me?». Il pezzo si chiude con un auspicio a una solidarietà tra gli uomini e verso gli uomini: «Sono soltanto Ken, e sono abbastanza. E sono bravo a fare le cose, vieni a conoscermi. Metti la tua mano virile nella mia, hey mondo! vieni a conoscermi». Un rigurgito di quella fragilità scuoterà ancora Ken, ma allora Barbie, chiedendogli scusa per averlo dato per scontato, lo esorterà a emanciparsi dall’immagine adulterata che dell’uomo vige in Barbieland, e diventare pienamente se stesso: «Forse tutte le cose che pensavi che ti definissero, non sono davvero te… forse c’è Barbie, e c’è Ken».
Qual è il mio posto nel mondo?
Ripristinato l’ordine in Barbieland – con un minimo progresso: ai Ken sarà concesso essere giudici (ma non della Corte Suprema), e la voce narrante commenta «E poi un giorno i Ken avranno lo stesso potere e influenza a Barbieland, che le donne hanno nel mondo reale» (chiaro?) – è tempo anche per Barbie di completare il suo percorso di maturazione. «Qual è il finale per lei?» si chiedono gli altri personaggi, «Che cosa vuoi?». Le viene in soccorso Ruth Handler, raccontandole che quando creò Barbie, lo fece ispirandosi a sua figlia Barbara, augurandole di realizzarsi come donna. Il mondo reale però è molto diverso da Barbieland: «Gli umani prima o poi se ne vanno. Le idee vivono per sempre, gli umani non molto. Essere un umano può essere piuttosto spiacevole… E poi, si muore». Ma Barbie è ormai pronta per “il salto” nella realtà, dove ci saranno anche dolore, fallimento e morte, ma proprio grazie a questo, c’è la possibilità di essere non più un ideale astratto, un oggetto immutabile, una bambola, ma un soggetto, capace di “creare valore” e “partecipare all’ideazione”. In un mondo dove non ci siano imperfezione, caducità, corruzione e morte, non può esserci alcuna novità né alcun disequilibrio, e quindi non può esserci creazione né valore: uno dei messaggi più caratterizzanti e profondi della filosofia occidentale.
Barbie ha capito che desidera uscire da Barbieland e diventare una donna, e chiede il permesso alla sua creatrice. Ma Ruth vuole che prima Barbie sappia cosa significa: le due si prendono per mano e parte il momento più toccante del film, una serie di scene, viste come attraverso un filtro onirico, della vita di alcune madri e delle loro figlie, seguite nel loro crescere, vivere e invecchiare; sottolineate da un delicato, commovente pezzo di Billie Eilish, le cui parole non potrebbero essere più esplicite a questo punto: «Un tempo volavo, ora cado soltanto/ Un tempo lo sapevo, ora non lo so più/ Qual è il mio posto nel mondo?». E il finale del film, che vede Barbie fare il suo ingresso nella vita reale col suo nome reale, Barbara Handler, nel suo simbolismo è cristallino e inequivocabile. Nell’ultimissima scena si vede forse Barbie alla Corte Suprema? Alla NASA per andare su Marte? A capo di una manifestazione di attiviste femministe che combattono l’oppressione patriarcale? No: si trova lì «per vedere la mia ginecologa».