LETINO. Ambiente e cittadino con il “Canale di Pace” dei letinesi.

“Bellissimo è Letin paese / il più alto del Matese fabbricato è sulla roccia / dove la nebbia non approccia. Chi lo vede di prospetto / dice: “ma chi fu l’architetto?”

di Giuseppe Pace

”Letino tra mito, storia e ricordi” è il titolo di un mio breve saggio, che presentai nell’agosto del 2009 al museo del territorio letinese. Ricordo che alla presentazione erano presenti, in particolare, alcuni turisti e conterranei emigrati letinesi in Canada come il mio omonimo con la moglie, figlia di una mia cugina paterna con il nome di mia nonna, e 2 figli. Li ringrazio, ora per allora, per l’interesse manifestato di conoscere il mio punto di vista sul comune paesetto dal quale siamo entrambi emigrati. Altri non emigrati, hanno altri punti di vista non similari? Pare che spesso qualcuno, che faceva o fa ancora politica locale, lo dice, ad alta voce, al popolo letinese e non ai singoli cittadini autonomi di pensare. Sale sul podio paesano come una sorta di “capobranco”, mentre  scripta manent verba volant e gli emigrati leggono più dei “miei pastori”, non più transumanti. Lo scrissi già nel saggio suddetto rifacendomi agli emigrati in Argentina, alcuni leggevano più quotidiani la mattina- non solo il tam tam paesano ed orale- e lo ribadisco. Si spera che in futuro i nipoti degli anziani letinesi, più e meglio scolarizzati, siano non popolo ma cittadini, artefici del proprio ambiente e destino. Solo la scuola può compiere il miracolo di trasformare il suddito in cittadino, diceva Pietro Calamandrei. Egli precisava che la scuola può, ma non è detto che ci riesca. A volte, osservando l’ambiente campano senza escludere quello molisano di prossimità, vedo che l’omertà di tanti, anche scolarizzati non poco, a farsi solo i fatti propri è ancora un retaggio non fisiologico in democrazia. Il film di ieri, su Rai 1, della vita ed opera del prete casalese Don Peppe Diana, trova in Campania-casertana, sempre più ammiratori, ma quando venne barbaramente trucidato, un’intera comunità, non piccola, era succube della malavita organizzata e lo Stato stava a guardare, come spesso accade nel nostrano Mezzogiorno. Anche per la “Terra dei Fuochi” sembra che nessuno sapesse e nessuno immaginasse cosa succedesse se non fosse stato per l’eroe come il cittadino,  R. Saviano, che lo ha detto al mondo intero, pagando con la propria libertà vigilata con scorta e senza fissa dimora da anni ed anni. Anche il nostro Stato Repubblicano ha bisogno di riforme che limitino non di poco la burocrazia che giustifica il non fare e lo stare a guardare gli eroi che fanno. Il suddito spesso è voluto da uno stato padronale? Perché non dirlo, per paura di repressione e da chi? C’è la libertà di stampa e di pensiero che il cittadino, nato dalla lotta al nazifascismo, ha acquisito nella Carta Costituzionale. Scrivo ciò perché ho terminato di scrivere il saggio ”Canale di Pace”, che tratta proprio dell’evoluzione del suddito a cittadino, partendo dal toponimo letinese del canale della masseria di mio nonno omonimo paterno. Nell’alta valle del Lete c’è ancora (forse per un secolo ancora visto il forte calo demografico, un po’ meno del vicino Gallo Matese) un paesetto che deriva il nome dal fiume e viceversa, Letino. Il territorio di Letino però si estende anche nell’altissima valle del Sava, che alimenta l’attuale lago di Gallo Matese. Lungo un canale che affluiva nella Sava (nel vernacolo è rimasto al femminile il fiume Sava come altrove, ad esempio a Padova si dice ancora la Brenta, fuori delle aule universitarie dei saperi geografici) c’era la masseria di mio nonno paterno omonimo. Don Antonio Gallinaro, parroco a Letino dal 1936 al 1944, ha lasciato una sua poesia, che è un magnifico dono che riporto per ricordarla ai “miei pastori”: “LETINO “Bellissimo è Letin paese / il più alto del Matese fabbricato è sulla roccia / dove la nebbia non approccia. Chi lo vede di prospetto / dice: “ma chi fu l’architetto?” Con impegno e gran sudore / l’architetto fu un pastore. Il monte è quasi conico / ma fu l’architettonico. Con ingegno e gran fatica / l’adatto’ a casa antica. Ai suoi piedi c’è il bel Lete / pien di trote chete chete Che prender si fanno / senza tempo e senza affanno. I suoi boschi son tutti faggio / e son pieni di selvaggio Lepri, storni e pernici / fanno i cacciatori felici. D’inverno è quasi freddo, / ma d’estate è tutto verde e la sua bella vista / piace molto al turista. E’ qui che fa posa / per almeno due tre mesi, poi a casa sua ritorna / ed al suo lavoro si aggiorna. Armentizia e agricoltura / sono buoni per natura, tutto vogliono comprare / perché piace lor mangiare. Una donna di nome Letizia, / adesso sto a darvi la notizia Qui un giorno si fermò / e Letino il paese chiamò”. Il mitico fiume Lete è stato oggetto-soggetto di studi e di attenzione da parte di poeti e letterati non soltanto greci e latini, ma anche di altre culture; si può citare, ad esempio, il filosofo Martin Heidegger, che agli inizi del Novecento esaminò a fondo il concetto di alétheia in quanto “verità” (la parola alétheia deriva dalla stessa radice greca da cui deriva il nome Lete). E’ un fatto, comunque, che la descrizione virgiliana prima e dantesca poi coincidono con il paesaggio plasmato dal fiume Lete. Sul mito del Lete a Letino, dunque, c’è da soffermarsi, contemplando il suggestivo paesaggio con l’alone misterioso che lambisce ovunque il fiume, soprattutto nei punti in cui crescono piante e soffiano brezze di monte e di valle. In assenza di origini certe dei letinesi la più verosimile è: il paesetto sarebbe stato fondato da pastori che portavano le greggi al pascolo estivo sul Matese e che vi sarebbero rimasti anche nei periodi invernali. In un primo tempo si stabilirono alle Secine, attorno alla chiesa di Santa Maria dell’Arco, poi a San Pietro, da dove si trasferirono verso l’attuale Letino sotto al castello longobardo-normanno e angioino. Formarono il borgo del vassallo? Oppure erano possidenti di cittadine come Alife che si rifugiavano a Letino sui monti per stare più sicuri anche dalle incursioni saracene? Il muro sud della chiesa madre letinese del VII secolo d.C. lo testimonierebbe? Anche l’ipotesi dell’origine dalla Grecia trova riscontro nel costume e nella parlata locale, oltre che nell’indole vivace ed allegra dei letinesi. Un gruppo di nobili guidati dalla principessa Letizia, per sfuggire all’espansionismo degli Ottomani, potrebbe essere capitata nell’alta valle del fiume Lete e ne abbia apprezzato le qualità delle acque fresche e benefiche del fiume, della dimenticanza e dunque dell’oblio. Dante Alighieri cita il Lete come il fiume che espia i peccati prima di essere degni del Paradiso e dalle sue acque ne esce Beatrice, come un carezzevole venticello.  Dal lago d’Averno all’alta valle del Lete è più facile arrivare lungo i tratturelli transumanti che si intravvedono vicino al reperto fluviale del paleocorso del Lete, a forma di V, sulle Rave di Prata Sannita, dov’è ancora il reperto della transumanza verticale, che portava ai prati sottostanti (Prata) e ai più piccoli prati di Pratella. Virgilio nel libro VI dell’Eneide descrive Enea che, dopo aver incontrato la Sibilla Cumana e sepolto il compagno Miseno, sul promontorio che ancora porta il suo nome, va nella valle del Lete per incontrare il padre Anchise nei Campi Elisi. Anni fa ho visitato l’antro della Sibilla Cumana, il sovrastante Tempio d’Apollo con Ischia nel panorama di prossimità, il Lago d’Averno con la trattoria Caronte, e rimasi estasiato dell’immenso concentrato culturale, utile per lo studio ambientale non solo locale ma mondiale, almeno della cultura occidentale dei saperi umanistici, che con quelli scientifici possono trovare un’armonia pacifica e non sempre discordanze. Mi faceva da guida occasionale, Salvatore Brunetti, puteolano e autore della lirica poetica Dicearchia (cantata da altri) ma anche saggista di Glottologia napoletana e puteolana nonchè di romanzi che trattano di altri ambienti con cenni alla vita oltre la morte. La sua presentazione del mio saggio “Piedimonte Matese e Letino tra Campania e Sannio”, testimonia competenza e non provincialismo. Prima della regola dei confini dell’acquapende, Letino, che dal 1927 apparteneva al Molise e alla Provincia di Campobasso, dal 1945 passò alla Campania e alla Provincia di Caserta, come anche Gallo Matese, Capriati al Volturno, Fontegreca, Ciorlano, Prata S. e Pratella. Il mito e il costume tradizionale suggerirebbero un’origine greca di Letino, il cui territorio è esteso 31,59 kmq a oltre 900 metri di quota e che registra oggi circa 700 abitanti (nel 1951 ne registrò 1.346). Il territorio letinese ha due piccole aree pianeggianti, una a Sud del paesetto dalla parte del Lago fino alle Fossate e un’altra alle Secine dalla “Cuttora” alla “Taglia”, toponimi noti non solo ai letinesi. L’ipotesi dell’origine di Letino dalla principessa Letizia con la sua piccola corte di nobili affonda le radici nella tradizione orale indigena e si spiega con la fuga dal dominante espansionismo ottomano. Poi il mito fa la sua parte e alimenta l’ipotesi, come in altri miti, dell’origine semidivina del soggetto, meglio se cittadino e non suddito.  Letizia, bagnandosi nelle acque del piccolo fiume, a cui aveva dato il nome di Lete, e trovandovi giovamento con la distensione fisica e mentale operata dalla dimenticanza (oblio virgiliano, dantesco, ecc.), decide di restare lassù, isolata tra gli alti monti del Matese, tra  due pieghe di corrugamento appenninico, di cui quella adriatica è più elevata con il monte Miletto di 2.050 metri. Di Letino è suggestivo e sacrale il tradizionale  costume femminile, mentre quello maschile si è perduto già da circa un secolo. Il costume della tradizione letinese è esposto al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari  a Roma, insieme a quello di Macchiagodena (IS). I due magnifici costumi furono donati al Museo Nazionale nei primi anni del 1900 dal collezionista svizzero, Ing. Guglielmo Berner, direttore del cotonificio di Piedimonte d’Alife. Del castello di Letino, ma anche del paesetto che porta il nome del fiume Lete. Con il senno del poi, la storia recente ci suggerirà, in modo più evidente di oggi ancora troppo vicini passionalmente a certi avvenimenti, che dietro il clamore della fine degli anni Sessanta del secolo scorso c’era una ben determinata causa derivante dall’espansionismo di un grande Stato che ha combattuto per oltre 1 secolo il capitalismo per poi applicarlo a pillole in una piramide di burocrazia. In Europa c’è un prima e un dopo ’68 o 1968. Prima la società si evolveva senza clamori generazionali e grossi traumi sociali, dopo, invece, la contestazione di alcuni filosofi del popolo misero il dubbio tutte le autorità. Tra padri e figli ci fu una discontinuità e a causarla furono i movimenti parigini, statunitensi e, degenerando, italiani. Ricordo bruciare il portone dell’Università Federico II e altre “prodezze” di facinorosi, figli della borghesia che parlavano in nome del popolo. Questi movimenti a Padova li trovai quasi una decade dopo con l’arresto di un gruppo, tra cui spiccava il prof. universitario, Toni Negri, poi rifugiato in Francia, da parte del Magistrato Calogero. Il mio saggio ambientale ”Canale di Pace” non ancora stampato per mancanza, in Italia, di editori con il rischio imprenditoriali, tratta dell’evoluzione del suddito a cittadino. Quando si parla di moderno suddito lo si intravvede nel popolo e non nella comunità di cittadini. In Italia, più di atre parti, a me pare, c’è un’ancora tradizionale visione del popolo. Bisogna, invece, avere la visione del cittadino o dell’individuo che è più moderna ed attuale. Il popolo è amorfo, informe e senza testa, mentre il cittadino no poichè ha una testa, un nome e cognome nonchè parla per conto proprio e non in nome del popolo informe ed acefalo. La nostra Costituzione quando fu pensata ed approvata produsse anche un acceso dibattito. Nel decidere se mettere “in nome del popolo sovrano” oppure del cittadino, vinsero, a maggioranza, i “populisti” come sempre succede fin da Roma caput mundi con consoli Optimates e Populares. Lo stesso Giulio Cesare, che era un console di gens nobile di antica origine, decise di essere eletto tra i Populares come oggi alcuni politici del Pd che parlano continuamente di dare ai poveri. Nel Mezzogiorno poi al popolo si associano spesso i cafoni, che lo scrittore abruzzese, Ignazio Silone, in Fontamara, così scriveva in merito ai cafoni:” “Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore”. Silone fa questo profilo storico-ambientale: ”Fontamaresi, quindi, si preoccupano non poco quando il nuovo podestà del capoluogo decide che il torrente la cui acqua viene usata da secoli per irrigare le loro terre deve essere deviato per andare a bagnare le sue (e manda dei cantonieri, a spese del comune, per effettuare i lavori). Per i contadini ciò significa la morte certa per fame, e non hanno altra scelta: devono protestare. A Fontamara è giunta voce che il Governo a Roma è cambiato, ma chi siano questi fascisti non lo sa nessuno. Che adesso il sindaco non si chiami più sindaco, bensì podestà, a loro non interessa: solo i cittadini si agitano tanto per una parola che cambia. Ai Fontamaresi non importa chi siano o come si chiamino i potenti di turno: quello che sanno è che da essi verranno derubati, sfruttati, ingannati e dileggiati. Da secoli e secoli, i cafoni sono rassegnati a sopportare, impotenti, le prepotenze e i soprusi di chi è più potente, più ricco, più istruito di loro”. Silone, come altri, era attratto da certa cultura del suo secolo, pervasa dal mito dell’egalitarismo e dell’imposizione del rispetto del suddito da parte del ricco o del feudatario. L’Ambiente di Letino, del Canale di Pace e del mito del fiume Lete  sono parte “inscindibile” di me, per la nascita e formazione fino al 1963 quando andai a studiare a Piedimonte d’Alife, dapprima a pensione poi, insieme ai miei familiari trasferitisi. Allora, 1963, abitava nella stessa via anche un mio compagno di classe piedimontese, che conobbi dal terzo anno di corso poiché prima egli aveva frequentato il ginnasio. Il barbiere piedimontese “Giannino”, allora mi appellava “lo studente letinese dei proverbi”, perché ne ricordavo ancora non pochi. Ho vissuto le mie prime 14 primavere, estati, autunni e inverni nell’ambiente di un paesetto  di montagna appenninica, Letino, nella regione storica del Sannio. L’antichissimo comune di Letino è ubicato a più di 1000 metri di quota sulla prima parte dell’Appennino Meridionale al confine tra Molise e Campania. Ricordo in particolare due bambini- me e mio fratello Antonio- impegnati a scoprire, soprattutto d’estate, il mondo esterno in compagnia dell’anziana nonna paterna, Maria Giuseppa Orsi. Nei mesi estivi vivevamo alla non piccola masseria del fosso o “Canale di Pace”, toponimo di un piccolo affluente del fiume Sava, da non confondere con l’omonimo fiume sloveno. Il Sava, che accoglie le acque del Canale di Pace, ha regime torrentizio perché d’estate le sue acque scorrono nel sottosuolo carsico come pure gran parte degli affluenti. Fa eccezione il vicino canale di San Pietro, che scorre più ad ovest del Canale di Pace. Non lontano dalla fontana di San Pietro, sorgeva, prima del XIII sec., il secondo insediamento di Letino. In tale, anche storico, ambiente c’è il toponimo dei miei avi, situato nell’alta valle del Sava, che, in gran parte, è nel territorio del comune di Galo Matese (CE) della Diocesi d’Isernia, mentre il “Canale di Pace” è nel territorio di Letino (CE) della Diocesi d’Alife.  Il piccolo Canale di Pace era ed ancora lo è un piccolo affluente del fiume Sava, che è immissario del lago di Gallo Matese, realizzato nel 1970, con esproprio forzato dei terreni pianeggianti dei gallesi. Questi poi emigrarono in massa fino a ridursi a circa 500 abitanti attuali, mentre erano 3.417 nel 1921, i letinesi, invece, che hanno registrato un massimo di 1300, oggi superano di poco i gallesi con migliore clima e fertilità del suolo posto a 875 m di quota. Il fiume Sava dopo il paesetto di Gallo M., si inabissava e riappariva nella cipresseta di Fontegreca e attraversare i territori di Prata Sannita, Ciorlano e Capriati al Volturno, prima di affluire da sinistra nel fiume Volturno. Il fiume Sava nasce a Capo Sava, dolina carsica quasi ai confini con il territorio di Roccamandolfi e vicino alla Fontana Palombi. Molti abitanti dei paesi pedemontani del Matese credono che l’alta valle del Sava sia esclusivo territorio di Gallo Matese; invece, lo è solo in gran parte e a partire dalla masseria “Finezze”, prima delle Starze gallesi, ex tenuta dei monaci benedettini che bonificavano terreni paludosi in tutta Europa, tanto che molti comuni o località hanno Starze come toponimo. I territori di Gallo Matese e di Letino sono particolarmente ricchi di acque nelle quali, soprattutto in quelle dei due laghi, vivono: la trota fario, l’anguilla, la carpa comune, il persico reale, il barbo, la tinca, il vairone e, ultimamente, il luccio. Tutto l’anno, ma specie nei periodi estivi, sono presenti vari e numerosi uccelli acquatici, come le folaghe, i germani reali e le marzaiole. Nel Lete più che nel Sava ho pescato le trote fario con le mani. Nelle fredde acque autunnali del Sava mio padre poneva, per tre settimane, in zone impervie e ben nascoste, due sacchetti di lupini, che poi li mangiavamo alla masseria del Canale di Pace oppure nella nostra casa in via San Giovanni di Letino distante pochi km. Le sorgenti d’acqua letinesi sono affluenti in numero maggiore del fiume Lete che non del Sava. In linea d’aria il Canale di Pace a Letino, nell’alta valle del Sava, dista 2-3 km da Gallo Matese, 40 dall’autostrada del Sole a Caianello, 80 da Caserta, 110 da Napoli e 60 da Campobasso, mentre dal Mar Tirreno 65 km e dall’Adriatico più di 100. Il territorio vasto, dov’è anche il Canale di Pace, ha origine dai carsici rilievi sottostanti “le Valli” di Letino. Il canale idrico nasce tra fertile terreno misto e pietrame del conoide di deiezione là esistente, in un quasi nascosto noceto con piante anche secolari. Nell’ambiente letinese, il mito più che la storia pure molto incerta, non è affatto secondario nell’analisi ambientale con la luce del cosiddetto, a torto, riduzionismo scientifico. Il bambino già svezzato col nome del nonno paterno Giuseppe, aveva ancora piccole le spalle ma le domande che poneva erano grandi, è disposto a scrivere per raccontare parte di un ambiente naturale e di un mondo umano arcaico. Un ambiente di un piccolo mondo antico, dove i campi non sono più arati come allora e dove le piccole valli prative fanno da sfondo alla genitoriale masseria abbandonata della famiglia paterna dei Pace-Orsi e dei Fortini, cognome materno.  Dalla camera da letto della masseria del Canale di Pace, si vedevano le cime dei monti delle Mainarde-Meta, la pianura e il paese di Gallo Matese- poi vi hanno realizzato il lago- e in alto il medievale castello di Letino, con dentro il cimitero dal 1888 seppellendo una giovane donna. Dalla cameretta della masseria del Canale di Pace, posta sopra la cucina con forno a legna, ora non arriva più nessun rumore. Niente. Silenzio. Si vede il pavimento ben piastrellato, ma coperto di molta polvere e una branda arrugginita e ripiegata. Eppure era in quella magica cameretta, che ci iniziava alla religiosità popolare nostra nonna Orsi (spartana, brontolona e vedova). Mio nonno era morto a 56 anni mentre era con gli armenti sulle Valli del Sava poste a nord della fontana di San Pietro, oggi accessibili dalla nuova strada brecciata che porta a Capo la Sava. Restò la moglie (59 anni) ad accudire i sei figli prima e i diciotto nipoti poi, due in particolare che abitavano con lei: me e mio fratello Antonio. Il terzogenito Enzo, nato a Letino nel 1956 e morto a Piedimonte Matese nel 2013, non frequentò la masseria, restava a casa a Letino con nostra madre, mentre nonna, che mori nel 1958, era con noi d’estate al Canale di Pace. Ecco perchè nostra nonna, nel farci dire la preghiera prima di dormire, chiedeva, anche ai defunti dei suoi affini e parenti di primo grado (marito e figlia Concetta), di proteggere, i familiari viventi, dall’alto del cimitero di Letino.  “Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me, che ti fui affidato dalla Pietà celeste. Amen”, ci faceva recitare nonna con mani congiunte guardando verso il camposanto nel castello sommitale al monte ben visibile dalla finestra della cameretta della masseria del Canale di Pace. Se di sera era già scuro, perché spesso si andava a letto con le galline, avevamo il cero acceso e guardavamo uno sbiadito faro che illuminava l’esterno del cimitero, oggi vi sono più fari elettrici come riporto in fotografia. Allora ripetevamo quelle sacrali e citate parole che la nonna, in pigiama come noi due,  scandiva con voce ferma e sicura: di fare cosa buona e giusta. Quel collaudato microcosmo non era sconvolto dall’arrivo della più discussa civiltà dei consumi, globalizzata e digitalizzata. Cosa succedeva in quel microcosmo da piccolo mondo antico, raccontato, in minima parte, dopo una vita trascorsa lontano? E’ il bambino più grande, che scrive dei due ragazzini-adolescenti al confine tra quello che era e quello che è come in un sogno ravvivato dove si scorgono i ricordi dell’età verde, annidati nelle cellule neuroniche del cervello e in fondo al cuore di tutti noi. Resta suggestivo il paesaggio letinese con il castello e con dietro il Canale di Pace e il lago attuale di Gallo Matese. Il Canale di Pace è dunque nel paesaggio del piccolo comune di Letino- territorio della provincia di Campobasso fino al 1945 poi di Caserta.  L’ambiente letinese è ricco di paesaggi con sensibilità generazionali. Ne consegue che non si ritiene fuori tema la frase inglese: “Abovianum You are not in the mountains. The mountains are in you”. Non sei in montagna. È la montagna a essere in te (John Muir). Oppure l’altra frase che richiama anche lo spirito che animava i primi alpinisti europei e mondiali del 1700 e 1800: ”Everyone wants to live on top of the mountain, but all the happiness and growth occurs while you’re climbing it. Tutti vogliono vivere in cima alla montagna, ma la felicità e la crescita si trovano nel cammino per scalarla. (Confucio)”. Ritengo opportuno citare anche quest’altra pillola di saggezza: “Chi progetta sa di aver raggiunto la perfezione non quando non ha più nulla da aggiungere, ma quando non gli resta più niente da togliere” (Antoine de Saint-Exupéry). Ho vissuto la magica infanzia in ambiente montano ed ammirato i paesaggi appenninici del Sannio a Letino, che dista solo nove ore a piedi dall’antica capitale “Bovianum Vetus”, descritta dal patavino Tito Livio. I Pentri erano i montanari più numerosi della federazione dei Sanniti che migrarono dalla Sabinia, in  settemila per volta con il rito delle Primavere Sacre, fino a Bovianum Vetus nell’VIII sec. a. C.. Per amore di storia e coincidenze amicali ho svolto il ruolo di sacerdote Sannita a Bojano (CB) in due rievocazioni del mito delle Primavere Sacre o del Ver Sacrum di fondazione di Bovianun Vetus.  Dal 1948 al 1963, ho trascorso a Letino gran parte dell’infanzia e prima adolescenza. Durante i mesi estivi trascorsi al Canale di Pace, ero già una sorta di esperta guida naturalistica. Conducevo spesso i cacciatori, provenienti dal pedemontano matesino, alla ricerca soprattutto delle rinomate pernici. Altri animali selvatici diffusi nell’alta valle del Sava erano le volpi, le donnole, i merli, i passeri, i gufi, i cuculi, le civette, le cornacchie, le rane, le bisce e le vipere e d’inverno non mancavano i mallardi sull’acqua ghiacciata e i lupi anche in branchi, che pure vivevano nei boschi e pianori tra Letino e Roccamandolfi. Lassù, lungo la pista di pecore che conduceva al tratturo Pesasseroli-Candela, negli anni 1930-40, una donna gravida e a piedi era stata preda di lupi più affamati del solito per l’abbondante nevicata. Il fattaccio, riferitomi da un roccolano, Benedetto D’Angelo, era successo, perché d’inverno tre persone, andate a Letino per barattare merce, al ritorno furono investite da una bufera di neve. Il marito e il figlio della sfortunata, gravida di sette mesi, erano andati a chiedere soccorso al loro paese. Al ritorno da Roccamandolfi trovarono la donna dissanguata dal branco di lupi affamati. Episodi simili si verificavano su tutti i rilievi dell’Appennino, tranne che sulle Alpi, dove la Grande Guerra aveva estinto il lupo, ora ritornato. Al Canale di Pace abbondavano le lepri e i piccoli li vedevo spesso quando aiutavo a spandere l’erba che mio padre sfalciava dietro la masseria. Qualche volta, invitato dai cacciatori, mangiavo la selvaggina da loro cacciata, che a Letino era copiosa, come recita la poesia di don Antonio Gallinaro, prete della parrocchia letinese di San Giovanni Battista dal 1936 al 1944: ”I suoi boschi son tutti faggio / e son pieni di selvaggio. Lepri, storni e pernici / fanno i cacciatori felici”. A Letino le aree agricole, sistemate a terrazzamento, erano, in gran parte, utilizzate per la produzione di patate, mentre quelle pianeggianti per il frumento e per gli orti come davanti al paesetto, a 890 m di quota. Le sezioni di boschi di faggio a Letino sono le più numerose di tutti i 17 comuni della Comunità Montana “Matese” con oltre 40mila amministrati. In molti di questi comuni vi è un calo demografico sia per i minori servizi sociali che per il più basso reddito rispetto ai centri del pedemontano matesino. Tra le tante sezioni boschive letinesi spiccano i faggi secolari di “Pezza la Stella”, “Campo le Fosse”, “Valle dei Lupi”, “Coppari”, “Colle del Sole”, “Cese”, Grotta dei Briganti”, monte “Nicola Pilla” o “Ianara”, “Rave la Sava”, “Campo Ruzzo”, “Vallochie scure”, “Valle degi Astori” e “Capo la Sava” e dintorni.  In altissima montagna, ai confini con Roccamandolfi, vi sono doline carsiche e piccoli pianori pascolivi, soprattutto per bovini ed equini d’estate: e le due piccole valli con zootoponimi, “Valiastora” (Valle degli Astori) e “Valle dei Lupi”. La cima di Miletto, più di un secolo fa, segnava il confine tra Letino e Roccamandolfi, poi i roccolani spostarono più in basso la linea di confine che si vede in pieno bosco di faggio sopra Campo Ruzzo letinese. Anche Letino ha il suo “Campitello”, in alto dopo il monte e a nord della masseria dei Vaccaro e Stocchetti. I campitelli erano spazi pianeggianti boscati, che i locali disboscavano per renderli produttivi di frumento, patate e foraggi, come i più noti Campitelli di Roccamandolfi e di San Massimo, dov’è la stazione di sport invernali con molti alberghi e case. Al “Canale di Pace” di sensazioni naturalistiche, ne avevo sperimentato eccome! Esse erano rimaste memorizzate come una sorta d’imprinting. Mi erano familiari, come nella nota descrizione manzoniana dei Promessi Sposi dell’addio ai monti di Lucia, anche le principali vette dei territori di Letino e di Gallo Matese. Del secondo paesetto, visibile bene dal Canale di Pace, ricordo Punta Falasca di 1348 m., Favaracchi di 1219 m., Pietrauta di 1149 m., Monte Macchia Ferrara di 1258 m., Monte Croce di 1095 m., Monte Zeppone di 1317 m., Monticello di 1108 m. (tra Pietrauta e Monte la Croce), Monte Cinnamiello di 1064.  La stratigrafia, invece dell’alta valle del Lete, si può leggere da miei articoli negli Annuari dell’ASMV, citati in bibliografia. Conservo la lettera di Pietro Parenzan del 2/5/1986, prot. n. 1045 “Grotte del Lete”, che mi chiedeva di tenerlo informato sulle decisioni prese sulle- non solo mie ma anche sue e di chiunque- grotte del Lete. Egli aveva esplorato ed illustrato le belle e suggestive grotte del fiume Lete a Letino, prima di divenire Direttore Del Museo del Sottosuolo di Taranto. L’ambiente naturale del Canale di Pace, si ribadisce, è ubicato sui monti del Matese. L’orogenesi del colosso montuoso matesino va dal Triassico superiore (200 milioni di anni fa) fino al Cretaceo superiore (65 milioni di anni fa). Il suo ambiente era sommerso dal mare, simile a quello caraibico, e lo testimoniano non pochi fossili presenti nel parco geo-paleontologico di Pietraroja (BN). In tale parco, nel 1980, fu rinvenuto un piccolo dinosauro fossile, appartenente alla specie “Scipionyx samniticus”, in omaggio sia Scipione Breislak, che nel 1798 descrisse per primo il giacimento fossile di Pietraroja. Il cucciolo di Celurosauro fu chiamato “Ciro”, nome diffuso a Napoli e che nell’antico greco significa “Potenza”. Sul versante isernino del Matese, in località Pineta di Isernia, spicca il sito dove nel 1978 furono rinvenuti fossili del paleolitico, tra cui zanne di elefanti e di dente umano, che testimonierebbe la presenza dell’uomo vissuto non meno di 736.000 anni fa. La presenza dell’uomo di Isernia, a sua volta, si integra ai fossili campani di Tora e Piccilli, dove sono state ritrovate le “Ciampate del Diavolo”, riconducibile “all’Homo Heidelbergensis”, vissuto 385.000 anni fa, apparso nel “National Geographic” e nel “Guardian”. Più di 20 sono le cime del Matese alte oltre 1000 metri e che formano forre, canyon e valloni carsici più o meno ampi e notevole è anche la costituente idrografica, composta da laghi carsici, tra cui il Lago Matese. Posto a circa 1.011 metri di quota sul Matese vi è il lago appenninico più alto d’Italia, con un bacino lacustre di circa 10 metri di profondità e una superficie  di 60 ettari. Non pochi sono i torrenti, i  fiumi e le sorgenti che hanno origine dal carsismo del Matese. Di quest’ambiente naturale si conosce in particolare un po’ anche l’ambiente storico d’epoca longobarda. Allora era ancora attivo l’antico convento di Santa Maria in Cingla, dalle cui terre contese, alla fine del X secolo, fu scritto il più antico idioma volgare italiano, contemplato nei famosi Placiti di Montecassino e di Capua.  Ad affluire nel medio corso dello storico fiume Volturno vi sono tanti piccoli fiumi tra cui il mitico Lete e il meno noto Sava. Quest’ultimo attraversa la pregiata  cipresseta di Fontegreca, costituita da cipressi autoctoni, citati nel XVII secolo da Giovan Vincenzo Ciarlanti. Il Canale di Pace è situato a nordest del lago di Gallo Matese, nella parte quasi più alta della valle del fiume Sava, mentre il paesetto dei gallesi si trova in una vallata, con a centro una collinetta argillosa su cui sorge il centro storico  a  870 m. di quota. Il luogo è abbastanza boscato e in a quote più alte vi sono faggi e a quote meno alte querce, acero e frassino, ma anche biancospino, nocciolo e prugnolo, oltre a funghi, origano e camomilla. Da piccolo ricordo che mio padre andava a comprare le ghiande dai gallesi per poi darle in pasto ai due maiali prima di Natale. Per la fauna, al Canale di Pace abbondavano: quaglie, storni, tordi, pernici, beccacce, piche o gazze ladre, volpi, lepri oltre a falchetti e poiane più in alto sui monti, nibbi in località Starze : germani reali, folaghe e marzaiole in località Pescheta.  Attorno alla nostra masseria d’estate c’erano molte lucciole e sotto il tetto, esternamente, alcune decine di nidi di rondini. Ricordo le molte galline al Canale di Pace che entravano in stalla per il foro o cauto che di sera si chiudeva bene per impedire alle volpi di entrare. Nel nido delle galline ponevamo un sassolino simile all’uovo per stimolare le galline a gratificarci con le uova, che bevevamo crude oppure mangiavamo in frittata con menta dell’orto curato da nostra nonna. In passato il lupo nel territorio letinese e gallese era una presenza forte e numerosa, oggi e di ritorno anche se abbondano i cinghiali. Il Fosso- Canale di Pace è ubicato tra l’analogo emissario d’acqua della fontana di San Pietro e quello delle “Fontanelle” con stradina e rivolo d’acqua, che effluiva (adesso è tutto abbandonato e poco accessibile per le spine) dalla piccola fontana posta di fronte alla masseria di mio zio e primogenito, Giambattista Pace, nato a Letino nel 1902 e ivi morto, over 90. Nel 1946, due anni prima che nascessi, Filomena Orsi, cognata di mia nonna paterna, le gridò dalle Pietre Carrate: “Peppa mia è tornato dalla guerra tuo figlio Luigi”, così mi raccontava qualche anno fa, il nipote Antonio presente con lei e di soli 4 anni. Mio padre tornò dalla guerra, fascista di aggressione alla Grecia, un anno dopo il 1945 per la Questione di Trieste. Si era salvato, dopo l’8 settembre 1943, scappando in una masseria di contadini slavi per sfuggire alla prigionia tedesca. Quando mi raccontava le battaglie ed altri fatti di guerra, alla richiesta “io dov’ero?” mi sussurrava che mi portava nel suo tascapane, e, a 3-4 anni, gli credevo appieno. A 8-9 anni lo aiutai a spalare neve che aveva ricoperto due alveari vicino alla masseria del Canale di Pace. Un’apertura dell’alveare la raggiunsi per primo e infilai il dito nel foro del barile di legno, fui punzecchiato dalle api soldato dappertutto. Per un paio di giorni restai gonfio, poi tutto si ristabilì e tornai a scuola dal maestro Colamattei, che ai più chiassosi praticava la punizione del cavallo: sculacciava con una bacchetta l’alunno con la testa tra le ginocchia, alle alunne con bacchettate sulle mani. Mio padre, invece, era uno dei pochi letinesi che non mi puniva mai fisicamente, ma mi rimproverava sempre a voce ed in modo persuasivo. Forse l’esperienza in guerra e già over33, quando nacqui, lo rendevano più maturo e modernista. Infatti volle che mia madre si svestisse degli abiti tradizionali appena maritata, nel 1947.  Il canale più ad Est della nostra masseria pastorale, detto delle Fontanelle, oggi, è rinselvatichito, compresa la stradina laterale al rivolo d’acqua emessa dalla fontana “Le Fontanelle” ad est della masseria di mio zio paterno Giambattista Pace. Anche le Rave del Sava, poste sotto la dolina carsica di Capo la Sava, si sono rinselvatichite e sono ormai inaccessibili a piedi, mentre fino a qualche decennio fa c’era una strada praticata da persone ed armenti. Al Canale di Pace, mia nonna utilizzava una pedagogia montanara, forse ispirata dalla tradizione montanara con non poca parsimonia, laboriosità e onestà.  I suoi figli sono stati grandi lavoratori e così pure i 19 nipoti, forse faccio eccezione perchè perdo tempo a scrivere! Per molti contadini, soprattutto prima del boom economico italiano, leggere e scrivere veniva considerato come una perdita di tempo, che alcuni lo riproponevano quando minacciavano lo scolaro e studente ”se non studi ti mando a zappare”. La “punizione” o maledizione del servo della gleba medievale non è ancora scomparsa dal comune sentire popolare di qualche decennio fa, nell’ambiente italiano, mentre permane negli ambienti del Sud del mondo del 2021 d. C.. In Germania, a differenza dell’Italia,  il 75% degli artigiani è laureato in ingegneria, da noi, invece, sono quelli meno scolarizzati! La mia passione di scrivere, anche in quiescenza dal servizio attivo, non si riduce perché? Forse una delle risposte sta nel pensiero Del commediografo Eduardo De Filippo, napoletano eccellente di cui ricorrono i 121 anni dalla nascita: ”Io ho dovuto pagare un prezzo molto alto durante la mia vita, ho dovuto pagare sempre, sempre. E a furia di pagare, certe cose, oggi, non mi riescono più. Per esempio non mi riesce più di avere molta fiducia nella gente, non mi riesce di farmi degli amici veri, talvolta non mi riesce neppure di credere negli affetti. Io non sono una vittima, beninteso: anzi, mi sono sempre difeso bene. Ma l’unica cosa in cui credo davvero, oggi, e in cui sono riuscito ad essere forte, sempre, è il mio lavoro”.  E. De Filippo credeva nella sua professione e nel mondo dell’arte: riteneva che il teatro potesse veicolare concetti e messaggi atti da indurre alla riflessione; la cultura poteva smuovere le coscienze. Oggi, con il sistema digitale, il cittadino può informarsi di più e meglio. In questo sta anche la mia fiducia nell’evoluzione del suddito a cittadino anche nella povera terra d’origine!

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