PIEDIMONTE MATESE. Ripartire al buio è l’ultima cosa che serve al PD e al futuro del Paese.

Il campo largo era una tavola apparecchiata dal Pd alla quale si poteva accomodare chi voleva: il partito non poneva questioni di principio, era disponibile anche a cedere il posto di capotavola.

La Direzione si è divisa tra chi avrebbe voluto accorciare i tempi per il nuovo vertice e chi proponeva di allungarli. Intanto c’è da giocare la partita delle elezioni regionali

Il «manifesto» lo ha definito «un percorso bizantino». Ma non c’è osservatore esterno, neanche uno, che non abbia manifestato stupore per il dibattito alla Direzione del Partito democratico sul tortuoso iter che di qui a marzo dovrebbe condurre all’elezione del nuovo segretario. La Direzione del Pd si è incredibilmente divisa tra coloro che avrebbero voluto accorciare i tempi e chi proponeva addirittura di allungarli. Da notare che di qui al giorno in cui il Pd si sarà dato un nuovo gruppo dirigente c’è da giocare l’importante partita delle elezioni regionali, prime tra tutte quelle del Lazio. Ci penseranno «i territori», è stata la rassicurazione di Enrico Letta. Laddove per «territori» nel gergo di quel partito si intendono molte persone perbene che con generosità si danno da fare alla periferia. Ma anche oligarchi locali, del tipo di quelli che, per un diverbio notturno a Frosinone, hanno lasciato un’imbarazzante traccia di sé nelle cronache politiche di fine estate.

Al resto, per il day by day, provvederà un’ultima volta — secondo Letta — la teoria del «campo largo». Non è necessaria una laurea in Scienze politiche, per capire in cosa sia consistita questa teoria. Il campo largo era una tavola apparecchiata dal Pd alla quale si poteva accomodare chi voleva. Il partito non poneva questioni di principio, era disponibile anche a cedere il posto di capotavola. Purché tutti accettassero la leadership degli eredi di Pci e Dc. Per la passata legislatura l’allettante invito era esteso — nel nome di Ursula von der Leyen — anche a Silvio Berlusconi e all’intera Forza Italia. Praticamente a tutti, tranne Salvini, la Meloni e un loro ex segretario di origini fiorentine.

Con la promessa ai convenuti che si sarebbe poi adottato un sistema proporzionale in modo da rendere naturale e immodificabile lo stato di cose del passato decennio. Cioè che venisse sottratta agli elettori la facoltà di indicare da quale maggioranza desideravano essere amministrati. Ci avrebbe poi pensato il Parlamento — facendo leva sulla scarsa propensione degli eletti a sottoporsi ad un nuovo giudizio elettorale — a «combinare» uno o più accordi (anche contraddittori) per mandare avanti la legislatura. Risultato: nell’ora della verità solo la Bonino, Fratoianni e Di Maio si sono seduti a quel tavolo.

La vittoria delle destre il 25 settembre ha cambiato le prospettive. Radicalmente. Sperare adesso che venga introdotto un sistema proporzionale è da ingenui. Passato il centenario della marcia su Roma, trascorse le prossime settimane a far sentire la propria voce per contestare alla rinfusa questa o quella dichiarazione di esponenti della maggioranza, questo o quell’iniziale atto di governo, diventeranno chiare alcune cose. La prima è che nell’attuale legislatura non c’è spazio per coalizioni emergenziali che, come quelle del decennio che è partito con Monti e si è concluso con Draghi, costringano il Pd a «sacrificarsi» e a rientrare in un qualche ministero. La seconda è che, ove mai la coalizione di destra andasse in frantumi, l’unica opzione stavolta davvero sarebbe quella di elezioni super anticipate. E che queste elezioni — stando ai sondaggi — avrebbero un unico risultato certo: il trionfo del partito di Giorgia Meloni. A cui si aggiungerebbe, probabilmente, un buon successo del movimento guidato da Giuseppe Conte. E, forse, si assisterebbe anche a una qualche crescita del polo guidato da Carlo Calenda.

In queste condizioni è evidente che al partito di Letta spetta il compito di darsi al più presto un’identità nuova per guidare dall’opposizione anche la prima parte dell’attuale legislatura. Può scegliere come suggerisce la componente che proviene dal Pci di allearsi con Conte. Ma dovrebbe essergli precluso di ripresentarsi sull’uscio del M5S con l’atteggiamento, talvolta paternalista talaltra subalterno, che ha avuto nei mesi precedenti alla crisi di luglio. Né riteniamo gioverebbe la riproposizione del «campolarghismo» d’antan nella speranza di intercettare l’inevitabile ondata di protesta sociale prevista per la metà di autunno. Non è detto che perdere, sia pur gradualmente, l’identità di partito di governo e cedere a Calenda quel che resta di quel patrimonio (pur accusandolo di aver «piantato le tende» nel campo del nemico), sia una buona idea. Se ai dirigenti del Partito democratico pare saggio rinchiudersi per mesi nei gazebo riservando alla piazza l’immagine di quelli che, ad urlare più forte, si slacciano i bottoni al colletto della camicia, facciano pure. Però sappiano che su quelle piazze c’è già chi ha imparato a fare quel mestiere meglio di loro. E quando in primavera si ripresenteranno sfiniti ancorché con un segretario nuovo di zecca, non è detto che trovino ad attenderli folle tripudianti.

A noi parrebbe più sensato tenere in vita qualcosa dell’eredità di Letta, quanto meno la scelta atlantica, europea e filo-ucraina che dall’indomani del 24 febbraio è stata davvero nitida e coraggiosa. Comprendiamo però che per poter sfilare alle manifestazioni «per la pace» a braccetto con Conte (ammesso che Conte glielo conceda) il segretario uscente debba sfumare le proprie posizioni. Ma per quel che riguarda il suo successore alla guida del Pd non è detto che — dopo mesi e mesi di duttilità del nuovo Letta, quello di transizione — sia destinato a trovare un partito più forte di quanto sia ora.
Segreteria, identità, alleanze: se il Pd riparte al buio di Paolo Mieli 29 ottobre 2022

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